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Il ruolo del calcio in Italia
La funzione principale che il calcio ha avuto nella storia d’Italia è
stata quella di formare una coscienza nazionale. Se il particolarismo
resisteva nei piccoli centri, la formazione del sistema agonistico
nazionale, completata sul finire degli anni ’20 con la nascita del
girone unico, non fu secondaria nel processo di conoscenza reciproca
fra gli italiani e nel determinare una comune, intensa passione.
La seconda guerra mondiale, anche se aveva ridotto notevolmente
l’attività calcistica internazionale, non aveva impedito, che la
squadra azzurra affrontasse quelle di paesi alleati o neutrali come la
Spagna o la Germania. Nel dopoguerra, tra il 1946 e il 1948, la ripresa
dell’attività internazionale degli azzurri vide ancora affollati gli
stadi italiani. In quegli anni le imprese della nazionale esaltavano
crescenti masse di appassionati
La politica di austerità economica degli anni Settanta (soprattutto dal
1973 per gli effetti dell’aumento del prezzo del petrolio) diede un
impulso al desiderio di sportività, all’idea dell’importanza del moto
nella vita moderna. Nel corso degli anni ’70 gli italiani, per
assistere alle partite di calcio delle due maggiori serie, spesero meno
rispetto al decennio precedente. Migliore fu l’andamento del calcio
minore che continuò con costanza la conquista di sempre nuovi
appassionati. Le prime rivelazioni statistiche sulla reale diffusione
della pratica sportiva, che risalgono al 1982 constatano l’idea di un
assoluto predominio del pallone. L’esercito degli italiani, tesserati o
meno di qualche federazione, che dedicavano un po’ di tempo al calcio
contava due milioni di praticanti.
La televisione ebbe un ruolo fondamentale sul pubblico che così ha
potuto formarsi una cultura calcistica; al 1970 risale infatti
“Novantesimo minuto”, la trasmissione sportiva in onda alle 18 e 15 di
ogni domenica sul primo canale della RAI. Attraverso i collegamenti tra
lo studio centrale e i vari stadi, con le immagini dei gol, delle fasi
salienti delle singole partite e con i primi commenti, “Novantesimo
minuto” è stata anche la prima palestra di un giornalismo televisivo
dai ritmi frenetici. Trasmessa agli inizi dell’autunno e in primavera a
ridosso della fine delle partite, quasi senza soluzione di continuità
con “Tutto il calcio minuto per minuto”, la nuova rubrica impegnò
tecnici e giornalisti in un lavoro per quei tempi assai difficile.
Nell’estate del 1982 l’Italia si era qualificata per i mondiali di
Spagna non senza qualche difficoltà; le partite precedenti il viaggio
nella penisola iberica della nostra nazionale erano state opache, tanto
da indurre i tifosi e la stampa a formulare tristissimi presagi.
Nonostante la sfiducia nel valore della nazionale, il 29 giugno 1982
quasi 22 milioni di italiani assistettero attraverso il piccolo schermo
alla prima partita del secondo turno del mondiale che si concluse con
la vittoria dell’Italia sulla temibile Argentina di Maradona. A partita
conclusiva che assegnò il titolo di “campioni del mondo” fu quella con
la Germania che si concluse 3 a 1 per l’Italia. Finita la partita,
iniziò subito la festa, che si andava preparando da almeno tre giorni.
Riecheggiarono qua e là le prime strofe di “Viva l’Italia”, una
raffinata canzone di Francesco De Gregori. Solo poche volte nel corso
del secolo si era avuta una così grande e spontanea animazione nei
luoghi pubblici. A Roma scese nelle strade un milione di persone e il
delirio per il trionfo di Barcellona coinvolse tutti i centri abitati
della penisola, i treni, le spiagge, le carceri. Si impose il richiamo
al passato; gli archivi cinematografici diffusero le immagini di mezzo
secolo prima; la terza conquista della Coppa è per istituzione il
traguardo più ambito dei mondiali e diede vita a una nuova celebrazione
delle vittorie del 1934 e del 1938. Si volle vedere la continuità del
calcio italiano al di là dei sistemi politici e la sua capacità di
trionfare in democrazia non meno che nella dittatura.. L’esaltazione
patriottica in realtà durò poco. Più duratura fu la febbre del pallone,
scoppiata quell’estate. Il calcio, infatti, stava diventando uno dei
simboli dell’Italia aggressiva e vincente di quegli anni, un’Italia che
poteva dirsi nel complesso tutt’altro che infelice. Nel corso della
prima metà degli anni ’80 gli stadi della Serie A si riempirono sempre
di più, mentre sostanzialmente stabile rimaneva il pubblico delle altre
serie. Nel 1984-85 assistettero alle gare di A 9.329.780 spettatori,
più della metà costituiti da quelli che avevano si erano abbonati. Fu
l’apice di un successo destinato a non ripetersi mai più. Dall’anno
successivo iniziò la fase del declino, a cui contribuì soprattutto
l’enorme lievitazione dei prezzi dei biglietti. allontanò dagli stadi
il 40% degli spettatori. Il comportamento economico dei tifosi più
autentici fu anelastico. A consigliare i tifosi più tiepidi e assennati
a rinunciare alla partita della domenica furono le partite di metà
settimana, quelle delle Coppe europee. Gli anni ’90 furono
caratterizzati da una costante crisi economico-finanziaria e da un
clima di sfiducia per le inchieste della magistratura sulla corruzione
nella politica. Di conseguenza tra il 1990 e il 1997 gli incassi dei
botteghini degli stadi diminuirono del 38%. Tutto ciò, nonostante la
crescita negli stessi anni degli spettatori e degli incassi del
campionato di serie A. Le piccole folle delle serie minori sembravano
diventare ogni giorno più piccole. La serie C1 ha visto quasi dimezzare
i suoi pubblici e diminuire di quasi l’80% i suoi incassi. Eppure
niente indicava una disaffezione della Provincia verso il calcio,
tantomeno una declinante voglia di svago. Era sempre possibile
assistere attraverso il televisore alle imprese dei campioni delle
grandi squadre. Dopo il 1982 il trasporto degli italiani per l’azzurro
si appannò di nuovo, né le successive vicende internazionali
contribuirono a risollevarlo. Non lo risollevarono nemmeno il grande
teatro di Italia ’90 e la trasferta americana del 1994 che portò quasi
alla vittoria.
Oggi il calcio, che dovrebbe essere fonte di unità nazionale, così come
la perdita della sua funzione sociale, sia come svago sia come sano
interesse, è divenuto appannaggio e dominio di gruppi violenti di
tifosi, spesso politicamente ideologizzati (ma anche non) e di top
manager delle grandi squadre che attualmente sono sconvolti da un
terremoto giudiziario di portata nazionale.
In queste condizioni sarà difficile che il calcio (come qualunque altro
sport) possa costituire un modello di valori come di integrazione
sociale.
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