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Diritti umani
In che modo l’appartenenza culturale e religiosa influenza i
diritti delle donne? La
questione può essere considerata sia nei suoi fondamenti storico-teorici,
sia nelle sue manifestazioni empiriche.
L’idea di diritto nasce col giusnaturalismo, con le teorie del
contratto sociale che sono le teorie della
nascita dello stato moderno.
Queste vogliono dare una legittimazione che non è più
una legittimazione divina al potere.
I teorici della nascita dello stato moderno vedono lo stato di natura
in cui c’è la guerra di tutti contro
tutti e gli uomini per sopravvivere sentono l’esigenza di delegare
il loro potere ad un sovrano che
garantisce loro la pace e la sopravvivenza.
Nella teoria di Locke l’uomo ha già dei diritti che sono
naturali e che si scoprono attraverso la
ragione.
Si comincia a parlare di cittadini. La teoria di Locke avrà
la sua formalizzazione con la Rivoluzione
francese e con la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
E’ la positivizzazione dei diritti perché vengono scritti.
La fase successiva è quella dello stato liberale ottocentesco
e i diritti abbandonano il loro carattere
naturale diventando diritti oggettivi perché sono codificati
dallo stato e valgono in quanto tali.
Possiamo distinguere i diritti in diritti liberali, sociali, politici
di terza e quarta generazione.
I diritti liberali sono quelli negativi che proteggono l’individuo
dallo stato.
I diritti sociali richiedono una prestazione da parte dello stato (istruzione,
lavoro, salute) di cui si
fa carico lo stato. Questi diritti non sono eguali per tutti e perseguono
l’ eguaglianza delle
opportunità.
I diritti politici consistono nel partecipare alla formazione delle
indicazioni dei governanti (diritto di
voto) e sono per definizione i diritti dei cittadini.
Diritti di terza e quarta generazione sono diritti o di gruppo oppure
sono diritti liberali e sociali ed i
titolari sono categorie: per es. i consumatori, i portatori di handicap,
il diritto alla pryvacy, il diritto
all’autodeterminazione dei popoli, i diritti dell’embrione.
I diritti oggi sono considerati universali ma in realtà non
è così perché i diritti acquistano un
contenuto diverso nelle varie culture.
Il panorama del pensiero femminista, sia nel suo sviluppo storico sia
nelle sue configurazioni
attuali, è particolarmente vasto ed eterogeneo; in esso confluiscono
numerose correnti il cui solo,
certo denominatore comune è l’impegno per il miglioramento
della situazione delle donne.
La grande fioritura della teoria giuridica femminista nei paesi anglosassoni
avviene infatti a partire
dagli anni ottanta, in coincidenza con quella che si può definire
la svolta del femminismo della
differenza.
Il pensiero della differenza, affermatosi soprattutto negli Stati Uniti
a partire da rivendicazioni di
identità e autonomia di varie componenti sociali, ha trovato
nella differenza di genere uno dei suoi
principali terreni di sviluppo.
Nel Novecento la prima stagione del movimento femminista è caratterizzata
dall’affermazione
dell’eguaglianza tra i due sessi e dalla richiesta di riforme
che eliminassero le discriminazioni
formalmente sancite tra uomini e donne. Le donne chiedevano di aver
accesso agli stessi diritti e di
essere trattate come gli uomini; nello stesso tempo respingevano come
fattore di discriminazione e
oppressione i ruoli e i caratteri che tradizionalmente erano stati
loro attribuiti. Volevano cancellare
la differenza tra i sessi, che, così come si era consolidata
nella cultura e nella vita occidentale,
significava inferiorità, subordinazione ed esclusione delle
donne .Dalla fine degli anni settanta,
all’interno del pensiero e del movimento femminista inizia a
configurarsi un cambiamento
profondo che si fonda sul riconoscimento e sulla valorizzazione di
caratteri femminili non solo
biologici, ma psicologici, morali, culturali.
Il rapporto concettuale tra eguaglianza e differenze, la riformulazione
di questi concetti alla ricerca
di un’eguaglianza che si realizzi attraverso la valorizzazione
delle differenze, le conseguenze in
termini di scelte politiche e giuridiche, hanno lungamente occupato
la letteratura femminista e non
solo quella. Si è constatato come le politiche ispirate alla
nozione tradizionale di eguaglianza si
possano tradurre in modelli di assimilazione, cioè in modelli
che permettono ad alcuni individui di
raggiungere obiettivi e stili di vita della cultura dominante, ma al
prezzo della rinuncia, almeno
parziale, della propria identità personale e di gruppo.
Numerose analisi femministe hanno messo in luce l’infondatezza
dell’idea di universalità e
neutralità attribuita a teorie, categorie, paradigmi del pensiero
occidentale, sostenendone il loro
carattere sessuato, cioè costruito in forme strettamente connesse
alla prospettiva maschile. Una delle
critiche più profonde che il femminismo, insieme ad altre correnti
di pensiero contemporanee, ha
sviluppato e verificato nei confronti della cultura liberale, riguarda
la sua finta neutralità.
E cioè il fatto che nella costruzione di teorie, nell’affermazione
di diritti, nell’elaborazione di norme
ci si riferisca genericamente, almeno da quando l’uguaglianza
si è imposta come principio
universale, a un soggetto neutro, senza razza, sesso, ceto sociale,
ecc. Questo soggetto ha invece
caratteristiche precise che corrispondono a quelle del gruppo dominante,
e prenderlo come modello
implica l’esclusione o comunque la discriminazione di altri soggetti:
di individui di culture e
religioni diverse da quelle dominanti, di ceti sociali subordinati,
delle donne.
La storia del femminismo è segnata dalla progressiva percezione
delle differenze tra individui e fra
gruppi. Pluralità ed eterogeneità sono soltanto un fattore
costitutivo del movimento e del pensiero
femminista, ma rappresentano un valore da tutelare, anche se da ciò
deriva una costante difficoltà di
mantenere un’unità, interna ed esterna. Gli studi di genere
non sono diretti solamente a mettere in
luce le conseguenze dell’egemonia culturale maschile e a rivalutare
all’interno delle singole
discipline i punti di vista delle donne, ma mirano ad un cambiamento
più profondo, di natura
epistemologica, delle strutture , delle categorie, della conoscenza.
La loro scommessa è quella di
portare nuovi contributi alle scienze nel loro complesso.
Alla concettualizzazione della differenza femminile e del diritto come
dominio maschile
contribuisce fortemente la tesi della psicologa statunitense Carol
Gilligan, secondo la quale il
ragionamento morale femminile si sviluppa secondo percorsi e assumendo
contenuti differenti
rispetto a quello maschile. Nel noto libro In a different voice del
1982, Gilligan ricostruisce, sulla
base di interviste, compiute in tre diverse ricerche, a uomini e donne
di varia età, la concezione
della moralità e le esperienze personali di conflitti e di scelte
etiche. Dalle interviste emergerebbe
che per le donne la moralità deriva dall’esperienza della
connessione ed è concepita come un
problema di inclusione più che di peso relativo di diritti contrastanti
e che la loro attenzione nella
situazioni conflittuali è tendenzialmente rivolta alla salvaguardia
delle relazioni più che
all’affermazione di principi giusti.
La particolare configurazione della morale femminile non è tuttavia,
secondo Gilligan e a differenza
di molte teorie psicologiche precedenti, compresa quella freudiana,
espressione di una carenza e
dunque rivelatrice di un minor valore della sua psiche rispetto a quella
maschile, e non è neanche
necessariamente il risultato dell’oppressione sessuale e di ruoli
culturalmente imposti. Essa
costituisce al contrario un dato da valutare positivamente, un’attitudine
da difendere e sviluppare in
una prospettiva etica che si ponga come integrazione o sostituzione
di quella maschile.
La differente connotazione delle scelte morali, che emerge con evidenza
nei casi di conflitto,
conduce infatti Gilligan a formulare l’idea di un’etica
della cura o della responsabilità, tipicamente
femminile, in opposizione a un’etica della giustizia o dei diritti,
tipicamente maschile.
Per l’etica della cura il fondamento delle responsabilità
e, d’altro lato, delle pretese morali risiede
nella sofferenza soggettiva, mentre per l’etica della giustizia
risiede nell’ingiustizia oggettiva.
Le due prospettive non sono necessariamente contrapposte ma è
evidente che in determinate
situazioni concrete possono dar luogo a scelte molto diverse.
La nozione di etica della cura, che ho qui solo accennato, e le conseguenze
che se ne possono far
derivare anche sul piano pratico, hanno avuto grandissima rilevanza
nel pensiero femminista, e
costituiscono tuttora un punto di vista essenziale, intorno al quale
si sviluppano analisi, critiche,
rielaborazioni.
Complessivamente tuttavia l’etica della cura non ha avuto grandi
riscontri in provvedimenti e
riforme giuridiche.
In generale si è constatato che anche le norme ispirate al modello
della differenza possono condurre
ad effetti perversi e avere implicazioni dannose per una politica di
liberazione femminile. Esse
infatti rischiano di riproporre immagini e ruoli tradizionali delle
donne, ribadendo la separazione
dell’ambito femminile da quello maschile e in ultima analisi,
la sua subordinazione.
La rivendicazione di trattamenti speciali in base al genere può
tradursi in nuove forme di politiche
di tutela delle donne, quali quelle diffuse nel secolo scorso e duramente
combattute dal femminismo
dell’eguaglianza e della parità. Il mondo del femminismo,
soprattutto americano, si è diviso tra
sostenitori dell’ Equal treatment e sostenitrici dello Special
treatment; entrambi i modelli, una volta
trasferiti in norme giuridiche, hanno mostrato i loro limiti.
Al femminismo “culturale” ispirato alle teorie di Gilligan
si contrappone frequentemente la teoria
del femminismo radicale, incentrato sull’idea che le relazioni
sessuali così come sono socialmente
costruite concretizzano l’oppressione degli uomini sulle donne.
Negli Stati Uniti, l’esponente più
nota di questa corrente è Catharine MacKinnon, che è
anche l’autrice che ha segnato il passaggio da
una scienza giuridica femminista che puntava a realizzare riforme concrete,
a una teoria giuridica
critica che mette in discussione i fondamenti, i metodi e le categorie
della scienza giuridica
ufficiale.
Per MacKinnon il problema non è tanto se il diritto debba trattare
le donne in modo identico o
differente rispetto agli uomini, ma piuttosto di evitare che costituisca
uno strumento di
subordinazione e di oppressione.
Da questo punto di vista le teorie di Gilligan rischiano di perpetuare
una visione stereotipata della
donna che giustifica la sua oppressione, senza dare il peso dovuto
al fatto che quelle stesse
caratteristiche riconducibili all’etica della cura sono in parte
il prodotto del confinamento delle
donne in un ruolo prodotto dalla cultura maschile.
L’attenzione della teoria femminista deve spostarsi dunque dalla
teoria all’oppressione e la
sessualità costituisce l’ambito privilegiato di oppressione
degli uomini sulle donne.
Dal momento che la sessualità si traduce in relazioni di potere,
anche il consenso è una
comunicazione che si svolge in condizioni di diseguaglianza, come emerge
dalla discrepanza che si
constata in alcuni casi tra ciò che la donna vuole e ciò
che l’uomo capisce che lei vuole. Il diritto
invece identifica l’assenza di consenso solo nell’uso della
forza da parte dell’uomo o nella
resistenza fisica da parte della donna. In ultima analisi il problema
della violenza sessuale è che la
lesione della violenza risiede nel significato che assume l’atto
per le sue vittime, ma lo standard
della sua criminalizzazione risiede nel significato che lo stesso atto
assume per gli assalitori.
Il diritto non fa che riflettere rapporti definiti dal potere maschile,
relazioni oppressive che nasconde
sotto un linguaggio e un metodo neutro rispetto al genere. MacKinnon
è tra le prime e più decise
assertrici del carattere maschile del diritto. Le battaglie condotte
da MacKinnon sul piano del diritto
positivo, in particolare quella del riconoscimento delle molestie sessuali
come reato, e quella per il
divieto della pornografia, testimoniano della sua fiducia nella possibilità
di agire attraverso il diritto
trasformando il diritto stesso.
I due ambiti ai quali si è maggiormente applicata la teoria
giuridica femminista sono quelli della
donna in rapporto al proprio corpo, che comprende sessualità
e riproduzione, e quello dei rapporti
familiari. In questo secondo ambito sono emerse con particolare evidenza
sia la tensione tra
eguaglianza e differenza come modelli alternativi ispiratori di norme
giuridiche sia le disfunzioni
connesse a entrami i modelli.
L’ostacolo più difficile da superare, per molta critica
femminista, deriva anche nel caso della
famiglia dal carattere sessuato del diritto: se il diritto si occupa
della famiglia ed è un diritto
costruito al maschile per quanto i contenuti delle leggi siano fatti
da donne, il lessico e le categorie
ne inficieranno comunque una reale capacità di rispecchiare
la visione e gli interessi femminili.
Si presenta dunque un’alternativa: diminuire l’incidenza
della regolazione giuridica, con il rischio
che la condizione della donna abbandonata ai puri rapporti di potere
interni alla famiglia ne risenta
gravemente, o cercare un nuovo diritto, un “diritto delle donne”.
In particolare l’analisi di Okin si sviluppa a partire dalla
constatazione della teoria politica per
l’ambito istituzionale in cui principalmente si svolge la vita
femminile: la famiglia. L’esclusione
della famiglia come ambito di applicazione e verifica di criteri di
giustizia appare particolarmente
difficile da spiegare se si considera che essa costituisce il nucleo
primario di aggregazione e di
convivenza, il primo luogo di formulazione e imposizione di norme,
di organizzazione del potere.
Questa divisione dei campi non ha bisogno di essere giustificata perché
presentata come “naturale”:
anche in questo caso va riconosciuta la portata ideologica del concetto
di “natura”, che così come
legittima sovrani, diritti, ordini economici, allo stesso modo legittima
la divisione dei campi tra
maschile e femminile e il non intervento dello Stato nella sfera in
cui deve agire la donna, quella
privata e familiare. L’esclusione della sfera familiare e l’artificiosa
distinzione tra pubblico e
privato caratterizzano per Okin anche le teorie politiche contemporanee,
sia quelle liberali, sia
quelle comunitarie: entrambe, benchè utilizzino modelli di giustizia
egualitaria e un linguaggio
neutro e politicamente corretto, ignorano la soggettività femminile
nell’individuazione di criteri di
giustizia.
Per la Okin è dunque necessario sia elaborare teorie della giustizia
che siano veramente inclusive- e
non solo in apparenza attraverso l’uso di termini neutri- degli
ambiti di vita sociale delle donne,
e dunque in primo luogo della famiglia, sia abbandonare l’enfasi
sul carattere maschilista del
diritto e della morale, nonché la netta contrapposizione tra
giustizia e cura. Queste posizioni hanno
avuto l’effetto negativo di consolidare l’isolamento della
riflessione femminile, permettendo il
reiterarsi della sua esclusione dalla teoria politica.
La maggior parte delle culture sono imbevute di pratiche e ideologie
che hanno a che fare col
genere. Se una cultura approva il controllo sulle donne da parte degli
uomini in vari modi e se si
può immaginare che ci siano differenze di potere abbastanza
chiare fra i sessi, tali che gli
appartenenti al sesso più forte, i maschi, siano in genere anche
coloro che si trovano nella posizione
di determinare e articolare le credenze, le pratiche e gli interessi
del gruppo, i diritti di gruppo sono,
potenzialmente e in molti casi antifemministi. Essi limitano in maniera
significativa la capacità
delle donne di quella cultura di vivere con una dignità umana
pari a quella degli uomini e dei
ragazzi e con una pari libertà di scelta.
I fautori dei diritti di gruppo per le minoranze entro gli stati liberali
non hanno affrontato in modo
adeguato questa critica elementare ai diritti di gruppo, per almeno
due ragioni.
In primo luogo essi tendono a trattare i gruppi culturali come monolitiche
e a prestare più attenzione
alle differenze fra i gruppi che a quelle entro i gruppi, e in particolare,
essi danno un
riconoscimento scarso o nullo al fatto che i gruppi culturali minoritari,
come le società in cui essi
esistono, hanno al loro interno una struttura di genere, con significative
differenze di potere e di
favore fra uomini e donne.
In secondo luogo, i difensori dei diritti di gruppo hanno una scarsa
attenzione per la sfera privata.
Alcune delle migliori difese liberali dei diritti di gruppo insistono
sul fatto che gli individui hanno
bisogno di una cultura tutta per loro, e che solo entro una simile
cultura è possibile sviluppare
autostima o rispetto per se stessi, o la capacità di decidere
quale tipo di vita è buono per loro.
Ma tali argomentazioni trascurano tipicamente i ruoli differenti che
i gruppi culturali impongono ai
loro membri e il contesto nel quale si formano originariamente il senso
del sé e le capacità delle
persone e ove ha luogo la prima trasmissione di cultura, l’ambito
della vita familiare o domestica.
La maggior parte delle culture sono patriarcali e molte delle comunità
culturali- per quanto non
tutte- che reclamano diritti di gruppo sono più patriarcali
delle culture circostanti.
Le argomentazioni di Kymlicka a favore dei diritti di gruppo si basano
sui diritti individuali, e
limitano tali privilegi e protezioni a gruppi che sono liberali al
loro interno.
Sulla scia di John Rawls, Kymlicka mette l’accento sull’importanza
fondamentale del rispetto di sé
nella vita di una persona. Egli afferma che l’appartenenza ad
una “ricca e stabile struttura culturale”
colla sua lingua e la sua storia, è essenziale sia per lo sviluppo
del rispetto di sé, sia di un contesto
entro il quale le persone possano coltivare la capacità di fare
scelte sulla direzione della propria vita.
Perciò le minoranze culturali hanno bisogno di diritti speciali,
perché altrimenti le loro culture
potrebbero essere minacciate di estinzione; l’estinzione culturale
probabilmente metterebbe a
repentaglio il rispetto per se stessi e la libertà dei membri
del gruppo. In breve, i diritti speciali
pongono le minoranze su un piano di parità con la maggioranza.
Il valore della libertà ha un ruolo
importante nelle argomentazioni di Kymlicka. Perciò un gruppo
che reclama diritti speciali deve
autogovernarsi secondo principi chiaramente liberali, senza ledere
le libertà fondamentali dei suoi
membri con restrizioni interne, né discriminarli sulla base
del sesso, della razza o delle preferenze
sessuali.
Khymlicka ritiene sicuramente che le culture che discriminano le donne
in modo manifesto e
Formale, negando loro l’istruzione, l’elettorato attivo
e passivo- non meritino diritti speciali. Ma la
discriminazione sessuale è spesso assai meno manifesta. In molte
culture un severo controllo delle
donne è imposto, nella sfera privata, dall’autorità
di un padre effettivo o simbolico, che agisce
spesso tramite le donne più anziane o colla loro complicità.
In altre culture in cui i diritti e le libertà
femminili sono formalmente garantiti, la discriminazione contro le
donne nella famiglia non solo
limita gravemente le loro scelte, ma minaccia seriamente il loro benessere
e anche la loro vita. E
una simile discriminazione sessuale spesso ha potentissime radici culturali.
Sebbene Kymlincka si
opponga giustamente alla concessione di diritti di gruppo alle culture
minoritarie che praticano una
discriminazione sessuale manifesta, le sue argomentazioni a favore
del multiculturalismo trascurano
qualcosa che pur egli riconosce altrove: che la subordinazione delle
donne è spesso informale e
privata, e che virtualmente nessuna cultura oggi esistente- minoritaria
o maggioritaria- potrebbe
risultare conforme al suo criterio dell’assenza di discriminazioni
sessuali, se questo fosse applicato
alla sfera privata. Coloro che propugnano i diritti di gruppo valendosi
di fondazioni liberali devono
prendere in considerazione questa discriminazione privatissima e culturalmente
rafforzata. Perché
sicuramente il rispetto di sé e l’autostima hanno bisogno
di qualcosa di più della semplice
appartenenza ad una cultura vitale. Almeno altrettanto importante per
lo sviluppo del rispetto di sé
e dell’autostima è il nostro posto nella cultura. E almeno
altrettanto importante per la nostra
capacità di mettere in discussione i ruoli sociali è
il fatto che la nostra cultura ci imponga oppure no
ruoli sociali particolari. Nella misura in cui la loro cultura è
patriarcale, un sano sviluppo delle
ragazze è messo a repentaglio in entrambi i casi.
Il multiculturalismo è stato un movimento sociale, sviluppatosi
soprattutto negli Stati Uniti e nel
Canada, composto dall’azione di gruppi variamente caratterizzati:
indiani, donne, afro-americani,
omosessuali, ispanici. Questi gruppi hanno lamentato di subire discriminazioni
e oppressioni da
parte delle istituzioni politiche e culturali ed hanno richiesto interventi
pubblici innovativi rispetto a
quelli della tradizione democratica liberale. Questi movimenti sociali
si sono sviluppasti in stretta
connessione con quello che viene chiamati “pensiero della differenza”
che ha rivalutato le identità
collettive minoritarie,. La richiesta del multiculturalismo ( e del
femminismo) è stata quella di
politiche pubbliche di riconoscimento, tutela e valorizzazione.
Il benessere dell’individuo si definisce in relazione a quello
della comunità cui appartiene e compito
dello Stato è indirizzare verso il bene comune, mettendo in
luce e proteggendo i valori comunitari e
abbandonando la finzione della neutralità dello Stato.
E’ da rilevare che nell’affermazione di diritti, nell’elaborazione
di norme ci si riferisce
genericamente ad un soggetto universale e decontestualizzato, senza
razza, sesso, ceto sociale etc.
Poiché un tale soggetto non esiste, presupporlo ha la funzione
di occultare che le sue caratteristiche
non sono affatto universali, ma corrispondono a quelle del gruppo dominante.
Ciò porta ad
escludere o comunque discriminare altri soggetti; in primo luogo le
donne, ma anche individui di
culture, religioni, stili di vita minoritari, di ceti sociali subordinati
Secondo il multiculturalismo allo
Stato non spetta di esprimere una concezione del bene, una morale condivisa,
ma di tutelare e
valorizzare le diverse concezioni delle comunità presenti al
suo interno etc.
La discussione teorica interna al multiculturalismo si focalizza sulla
difficoltà di contemperare la
tutela dei gruppi minoritari e quella degli individui al loro interno,
di gerarchizzare i nuovi tipi di
vecchi e nuovi diritti che ne derivano.
Politiche e teorie della differenza concernono gruppi di varia natura:
minoranze autoctone,
comunità etniche e religiose, femministe, omosessuali, portatori
di handicap, accomunati in quanto
minoritari, oppressi e potenziali destinatari di politiche di riconoscimento
e di non
discriminazione.
La teoria politica multiculturalista si forma inizialmente con riferimento
alle minoranze
storicamente presenti nei territori nordamericani, per poi estendersi
ai gruppi etnici, gran parte dei
quali è composta da immigrati o da loro discendenti. Inoltre
nei paesi europei la convivenza tra
società autoctona e comunità di immigrati presenta aspetti
peculiari etc differenti rispetto alla
società multiculturale nord-americana, così come sono
profondamente differenti le società
multiculturali nel loro complesso, i sistemi politici, gli ordinamenti
e la cultura giuridica.
Ciò suggerisce di usare cautele nelle generalizzazioni e nella
trasposizione automatica di analisi e
proposte dall’una all’altra.
La società multiculturale nord-americana, composta da popolazioni
autoctone minoritarie e gruppi
di immigrati ha caratteri complessi. Gli immigrati sono in gran parte
costituiti in comunità radicate
nella società americana nel corso di generazioni; la loro storia,
benchè autonoma, è comunque
strettamente connessa a quella nazionale e i loro caratteri e rapporti,
più o meno conflittuali, con le
altre componenti sociali si sono definiti e costruiti nel tempo.
Il loro livello di integrazione in un unico modello americano, anche
se riguarda solo alcuni aspetti
della loro vita, è generalmente più profondo di quello
degli immigrati in Europa.
Le popolazioni di immigrati in Europa non hanno i caratteri definiti
dei gruppi etnici
nord_americani, né una organizzazione assimilabile. Sono prevalentemente
composte da individui
uniti in famiglie, reti di parentele o alleanze provvisorie costituite
in base alla provenienza
geografica. La loro organizzazione collettiva, oltre ad essere scarsa,
è generalmente limitata a fini
economici, lavorativi, culturali, religiosi, senza finalità
politiche rivendicate pubblicamente.
Nell’ambito delle comunità immigrate le donne sono frequentemente
oggetto di discriminazione,
che sono talvolta anche formalmente sancite.
In molti casi, invece, derivano da pratiche comunitarie, come l’escissione,
i matrimoni combinati, lo
sfruttamento di donne e minori, il ritiro delle bambine dalle scuole,
ecc. Tutti questi comportamenti
manifestano una cultura di subordinazione delle donne ai membri maschili
della comunità e
testimoniano una concezione dell’area privata, riservata alla
famiglia e alla rete di rapporti
comunitari, ed esclusa dall’intromissione dello Stato, ben più
ampia di quella attualmente diffusa in
Europa.
Partendo dalla constatazione del carattere oppressivo e discriminatorio
di molte pratiche rivendicate
a tutela dell’identità culturale di gruppi comunitari,alcune
autrici femministe hanno sottolineato le
incompatibilità e l’opposizione di fondo tra multiculturalismo
e femminismo. Ciò contrasta con lo
sviluppo di queste due correnti di pensiero che ha seguito percorsi
comuni di critica alle teorie
liberali nella loro assunzione di un soggetto universale e nella loro
pretesa di neutralità dello Stato.
Entrambe le correnti hanno poi avanzato richieste di riconoscimento,
tutela e valorizzazione delle
loro identità collettive contro la cultura e le istituzioni
dominanti, caratterizzate per il femminismo
dal dominio maschile, per il multiculturalismo da quello della maggioranza
o dei gruppi con
maggior potere economico e politico.
Un importante momento nel movimento e nel pensiero femminista è
caratterizzato dalla presa di
coscienza dell’esistenza di differenze interne culturali e sociali,
cioè dell’esistenza di molte
donne con valori ed esigenze diverse da quelli che avevano caratterizzato
l’idea della donna
costruita dal femminismo storico.
L’idea della donna tipica del pensiero femminista occidentale
e le istanze che ne derivano si è
confrontata con la varietà culturale delle donne mettendo in
luce la necessità di ridiscussioni e
revisioni. Si è compreso che evitare un’attitudine assimilatoria
significa non ignorare le differenze
di classe, di cultura, di razza, di religione tra le donne e non assumere
come punto di vista delle
donne quello della donna bianca, occidentale, eterosessuale, di classe
media, laica o di religione
cristiana.
L’attenzione all’individuo implica anche attenzione all’individuo
di genere femminile, ma anche in
questo caso fare riferimento ad un individuo astratto e prescindere
dai casi empirici limita
fortemente la sensibilità delle donne multiculturaliste verso
i problemi delle donne. Il dibattito
multiculturalista trascura o ignora che le culture che richiedono protezione
sono in gran parte
culture che discriminano le donne, oppure sono culture religiose, a
partire da quelle monoteiste,
fondaste su una visione subordinata della donna. Nei fatti molte politiche
multuiculturaliste
finanziano e sostengono culture ed istituzioni dichiaratamente maschiliste.
I sostenitori dei diritti
culturali tendono ad ignorare che anche i gruppi sono sessuati, a non
differenziare le posizioni
interne, a non interessarsi ai ruoli sociali esistenti.
In linea con tutta la tradizione politica liberale non prestano sufficiente
attenzione alla sfera privata,
domestica e familiare, che è quella dove si svolge prioritariamente
la vita femminile ed anche
quella più vincolata da norme religiose e tradizionali. Il multiculturalismo
nel suo insieme
sottovaluterebbe dunque, per Okin, il problema delle discriminazioni
interne a fronte di una
celebrazione di una cultura comune, omogenea e coesa.
Femminismo e multiculturalismo alla verifica delle scelte politico-giuridiche
concrete appaiono
dunque difficilmente conciliabili. Ma non va trascurato che ciò
si riferisce al un femminismo:
dominante nella tradizione di pensiero e nelle società occidentali..
Nel vasto insieme delle correnti femministe sono presenti modi diversi
di intendere ciò che
costituisce l’oppressione delle donne e le strade per eliminarla.
Il femminismo di radice occidentale
ha incontrato forti e ripetute critiche da parte del femminismo sorto
nei paesi cosiddetti in via di
sviluppo.
Nell’immigrazione femminile emergono frequentemente le difficoltà
di contemperare i diritti della
donna, così come si sono configurati nella tradizione occidentale,
e diritti culturali nelle forme
rivendicate da alcuni componenti, individui o istituzioni, delle popolazioni
immigrate.
Le donne si ritrovano dunque strette tra differenti diritti, entrambi
definiti non da loro ma da
soggetti collettivi che non ne tutelano gli intetressi reali, pur pretendendo
di rappresentarle.
Tre sono le dimensioni di differenza che vanno tenute in conto per
una donna immigrata: donna
rispetto all’uomo; straniera rispetto agli autoctoni; donna straniera
rispetto a donna occidentale.
Un atteggiamento che si proponga di contemperare la tutela delle donne
all’interno del gruppo e
come componenti del gruppo nella società complessiva si appoggia
più adeguatamente su una sua
considerazione come unità autonoma piuttosto che nei termini
della sua appartenenza a identità
collettive.
Queste identità sono infatti generalmente rappresentate con
caratteri estremizzati e semplificati,
spesso già predefiniti in forme tra loro conflittuali e non
necessariamente corrispondenti alle scelte
individuali.
In Europa studi sulle donne immigrate iniziano a comparire sporadicamente
verso la fine degli anni
Settanta, ma, benchè siano aumentate negli ultimi anni, la maggior
parte delle ricerche e dei dibattiti
sull’immigrazione continua a riferirsi a quella maschile o a
non differenziare, riferendosi
genericamente agli “immigrati”.
La focalizzazione sulle donne, invece, oltre che permettere di comprendere
le dimensioni delle
esperienze femminili, può svelare anche molti aspetti della
vita e della cultura delle comunità
immigrate, di cui le donne costituiscono i valori e le consuetudini
più intime, radicate e meno
visibili. E’ a partire dalla conoscenza delle situazioni femminili
che si possono affrontare
adeguatamente molti aspetti della convivenza multiculturale.
Nella prospettiva di un miglioramento delle condizioni di vita, delle
garanzie di libertà ed
eguaglianza delle donne appartenenti a minoranze straniere, il diritto
nelle sue varie modalità
d’azione può assumere funzioni essenziali.
Tuttavia è importante mantenere una permeabilità della
regolazione giuridica verso la situazione
concreta, il punto di vista delle persone coinvolte e gli equilibri
della loro vita sociale.
Ciò significa anche evitare contrapposizioni di principi e imposizione
di misure che possono
apparire ingiuste sopraffazioni eurocentriche e non costringere le
donne a scelte drastiche tra
l’appartenenza comunitaria e la tutela dello Stato.
Di fonte a situazioni discriminanti interne alla comunità di
appartenenza, più che divieti e
imposizioni, sono da privilegiarsi interventi diretti ad aumentare
e rendere effettivi gli strumenti di
tuitela ed emancipazione, che mettano le donne in condizione di poter
scegliere, di poter almeno
immaginare una vita alternativa a quella tracciata dalle proprie origini.
Per contribuire
all’autonomia femminile nei confronti della famiglia e della
comunità assumono dunque un ruolo
essenziale le misure di sostegno economico e sociale.
La funzione essenziale dei diritti sociali per la tutela delle libertà
individuali è ancora più evidente
per le donne che la carenza di occupazioni esterne retribuite, di strutture
pubbliche e servizi
adeguati alle loro richieste contribuisce a mantenere in una situazione
di isolamento, di chiusura in
un assetto familiare che non offre neanche più le protezioni
di quello tradizionale. La loro
autonomia e la possibilità concreta di sottrarsi a regole che
non condividono richiede dunque in
primo luogo un accesso al lavoro, all’istruzione, all’alloggio,
all’assistenza medica compatibile con
le loro esigenze, e cioè anche con le prescrizioni della loro
comunità o religione. Un esempio di
come sia importante, al di là della realizzazione di principi,
che i diritti sociali siano compatibili con
le appartenenze collettive viene dalle donne musulmane praticanti.
Una delle principali fonti di
sofferenza da esse denunciate è la preoccupazione di non poter
dare ai figli un’educazione secondo
la propria religione; anche per questo il rientro in patria rimane
un progetto costante, pur se
continuamente rinviato.
E’ chiaro che la posizione della donna immigrata dipende fortemente
dalla conoscenza della lingua
e da una almeno, parziale, autonomia finanziaria dalla famiglia e dagli
uomini.
Un caso esemplificativo emerge da una ricerca condotta comparativamente
nell’ambito delle
comunità di immigrati della Somalia e del Bangladesh, entrambe
di religione musulmana, che
vivono a fianco delle periferie londinesi.
Le prime hanno una maggiore indipendenza e frequenti contatti con individui
esterni alla
comunità, poichè in gran parte lavorano negli ospedali
o nelle fabbriche; le seconde invece
generalmente non lavorano, non parlano inglese, la loro vita si svolge
all’interno della casa, sono
del tutto dipendenti dalla famiglia e dagli uomini. Entrambe sono soggette
a violenze domestiche,
ma le prime potrebbero abbandonare il marito, le seconde no, non possono
immaginare di
sopravvivere se lasciano la loro comunità, non possono di fatto
separarsi.
La funzione politica esercitata dalle organizzazioni rappresentative
di gruppi minoritari è ineludibile
in un progetto di società multiculturale: sia per contribuire
ad una più adeguata interpretazione dei
loro diritti, sia, in generale, per la formulazione di norme che li
riguardano.
Tuttavia, come si è visto nel caso dell’Islam europeo,
fare esclusivo riferimento alle
organizzazioni ufficiali è riduttivo e fuorviante rispetto all’immigrazione
nel suo complesso e lo è
ancora di più per le donne.
L’attenzione va focalizzata sui meccanismi di partecipazione
e di potere interni ai gruppi: sia la
garanzia di spazi d’autonomia, sia l’attribuzione di beni
e diritti ai gruppi senza una verifica di
come saranno utilizzati al loro interno, comporta una buona probabilità
di discriminazione degli
individui con meno potere interno.
Se la visione delle donne come gruppo omogeneo è già
stata ampiamente messa in discussione dalla
letteratura femminista, altrettanta attenzione andrebbe posta nell’evitare
di fare riferimento alle
comunità di stranieri in modo unitario, senza considerare le
differenze e in particolare le
specificità femminili al loro interno.
Si tratta infatti nella maggior parte dei casi di comunità in
cui la componente maschile è dominante
sia per numero, sia per potere e in cui agli uomini è riservato
il compito di portare all’esterno le
richieste comunitarie.
La partecipazione delle donne nel determinare la linea, le richieste,
i rappresentanti delle comunità è
generalmente molto limitata.
Non solo va considerato che non necessariamente ogni membro di una
minoranza si farà portatore
degli interessi comuni, ma anche le procedure attraverso le quali vengono
definiti i supposti
interessi comuni di un gruppo.
Non ci si può disinteressare di ciò che avviene all’interno
della comunità, e non è sufficiente la
semplice imposizione di regole democratiche, benchè questa costituisca
già una garanzia, ma è
necessaria un’azione di progressivo coinvolgimento e responsabilizzazione
dei soggetti.
In ogni caso scegliere come interlocutore di politiche pubbliche istituzioni
ufficialmente
rappresentative di una minoranza, ma in cui le donne sono di fatto,
e spesso anche di diritto, escluse
dal processo decisionale, è chiaramente una scelta che può
aggravare ancor più la loro posizione.
Così, ad esempio, su questioni che riguardano l’uso di
pratiche o l’applicazione di norme islamiche,
né le associazioni femministe europee, né le comunità
musulmane possono essere considerate
rappresentative delle donne musulmane, dal momento che non abbiamo
alcuna garanzia che esse
esprimano il loro punto di vista.
Le situazioni di compresenza di norme con fonti e contenuti differenti
che caratterizzano le società
multietniche contemporanee sono riconducibili ad un paradigma tradizionale
della sociologia e
dell’antropologia del diritto, quello del pluralismo giuridico.
La nozione di pluralismo giuridico ha le proprie radici nella scienza
giuridica antiformalista della
prima metà del Novecento, si è radicata nella sociologia
del diritto per diventare, nella seconda
metà, un paradigma costitutivo dell’antropologia giuridica.
Intorno all’idea d pluralismo giuridico si è sviluppato
un lungo dibattito, ancora in corso, nutrito di
critiche e riformulazioni del concetto stesso, anche in relazione al
variare dei fenomeni a cui si
faceva riferimento.
Il pluralismo giuridico assume che si debbano considerare “giuridici”
anche ordinamenti differenti
da quello dello Stato, contrapponendosi alla visione, tipicamente giuspositivistica,
che limita il
diritto all’ordinamento statale e si occupa solo di quest’ultimo.
Il presupposto dell’approccio del pluralismo giuridico è
una nozione di diritto che va oltre la sfera
dell’ordinamento giuridico statale, in quanto lo identifica con
determinati caratteri che sono
osservabili anche in ordinamenti sociali differenti.
Nell’ultimo decennio gli studi sul pluralismo giuridico hanno
ricevuto un nuovo impulso da molti di
quei fenomeni che sono stati ricondotti alla crisi dello Stato-nazione:
da un lato dall’emergere di
vecchie e nuove identità collettive e richieste di riconoscimento,
dall’altro dall’imporsi di modelli e
rapporti economici, che a loro volta generano modelli giuridici, che
travalicano i confini nazionali.
La prospettiva del pluralismo giuridico, in quanto mira a riconoscere
le norme e le istituzioni che
orientano i comportamenti, definiscono le pratiche e le credenze all’interno
di un gruppo sociale,
trova applicazione privilegiata nello studio delle comunità
di emigranti.
Dopo una prima fase in cui individui soli arrivano alla ricerca di
lavoro o di asilo politico,
l’immigrazione tende a trasformarsi da individuale a familiare
e comunitaria.
Il raggruppamento familiare è uno dei primi obiettivi dello
straniero una volta acquisita una minima
stabilità e porta con sé nuove difficoltà, bisogni
e richieste.
Le reti di rapporti familiari e comunitarie assumono un ruolo più
significativo e adempiono a
numerose funzioni che vanno dalla ricerca di lavoro, alla costituzione
di luoghi di socializazione,
alla conservazione delle tradizioni, ma anche all’elaborazione
di risposte di adattamento al nuovo
contesto sociale e culturale.
‘Escissione’ è un termine che indica in senso lato
un insieme di interventi di ablazione degli organi
genitali esterni femminili. L’escissione rituale in alcune zone
dell’Africa si pratica da più di
duemila anni e non era certo ignorata dai governi occidentali e dalle
organizzazioni internazionali,
ma fino a vent’anni fa solo alcune associazioni femministe o
umanitarie se ne occupavano.
L’attenzione delle società occidentali per queste pratiche
ha iniziato a manifestarsi in relazione allo
stabilizzarsi di famiglie immigrate; prima per i suoi aspetti medici
e sociali, poi, in particolare, di
fronte a interventi avvenuti nel paese di immigrazione, per gli aspetti
giuridici.
Di fronte all’escissione rituale la condanna è automatica;
questa pratica è diventata l’esempio facile
di ciò che non si può tollerare, il baluardo della civiltà
occidentale.
Il problema di come affrontare le mutilazioni rituali sul piano etico,
politico e giuridico si è posto
recentemente: fino agli anni Ottanta la letteratura scientifica, in
maggior parte anglosassone, verteva
sugli aspetti medici, antropologici e sociologici.
Migrazione e globalizzazione hanno messo a confronto culture differenti
e anche queste pratiche
sono progressivamente diventate visibili all’opinione pubblica
occidentale.
In linea generale è stata rilevata l’incompatibilità
tra queste pratiche e le Dichiarazioni
internazionali per la protezione delle donne e dei minori, ma un riferimento
più specifico è
contenuta nella “Dichiarazione sull’eliminazione della
violenza verso le donne” adottata dalle
Nazioni Unite nel 1993.
Dal 1984 esiste un gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle “Pratiche
tradizionali che colpiscono
la salute delle donne e dei bambini”. Delle mutilazioni genitali
si è trattato ampiamente anche nella
Conferenza mondiale delle donne tenutasi a Pechino nel 1995, richiamando
tutte le dichiarazioni
internazionali e impegnando le Nazioni Unite a proteggere e promuovere
i diritti delle donne e delle
bambine contro ogni forma di violenza e discriminazione e arrivando,
dopo un lungo dibattito, a
raccomandare l’eliminazione di comportamenti e pratiche culturali
pregiudizievoli alle bambine.
La Francia è la nazione dove è sta intrapresa con maggior
decisione la via della criminalizzazione
dell’escissione, forse l’unica in cui molti genitori africani
e donne “professioniste”, autrici materiali
dell’intervento, sono stati perseguiti penalmente, condannati
e, in alcuni casi incarcerati.
L’escissione si deve fare non solo perché si è
sempre fatto così, ma perché una donna che non
abbia subito questa operazione rituale non è considerata veramente
donna e dunque non può trovare
marito, con tutto ciò che ne deriva in termini di isolamento
sociale, psicologico ed economico.
Inoltre, come hanno testimoniato varie madri africane che hanno vissuto
personalmente questa
esperienza, se una bambina non escissa rientra in patria anche solo
per una vacanza, viene presa in
custodia dalla famiglia allargata e immediatamente operata, anche se
in età avanzata e dunque con
una sofferenza e con rischi molto più forti.
Infatti chi decide in questi casi non sono tanto i genitori, quanto
i nonni o comunque la famiglia nel
suo insieme.
Il conflitto tra la norma consuetudinaria, spesso ritenuta anche religiosa,
e quella giuridica non può
dunque che risolversi a favore della prima, soprattutto nelle situazioni
di isolamento in cui vivono
molte donne immigrate e con il progetto di transitorietà che
caratterizza la loro presenza in Europa.
Naturalmente al centro della questione del trattamento giuridico dell’escissione
vi è l’interesse del
minore, della bambina, che secondo la visione europea è la vittima,
secondo quella africana
tradizionale è la festeggiata.
Il più importante argomento che viene opposto all’escissione
è che costituisce un ostacolo
all’integrazione degli immigrati, e non solo alle donne, nelle
società europee.
Se assumiamo il punto di vista di chi le pratica dobbiamo però
constatare che escissione o
infibulazione, che per noi sono mutilazioni, sono considerate perfezionamenti
del corpo e
dell’identità femminile che costituiscono il momento rituale
più importante, indissolubile dal
matrimonio, nella vita delle donne, a fronte del quale la sofferenza
fisica ha ben poco rilievo.
Come tutti i riti d’iniziazione segnano la collocazione dell’individuo
nella comunità, ne delimitano
la posizione e lo status interno. Non si può dunque prescindere
dal ruolo centrale di queste pratiche
nella formazione dell’identità delle donne e dal significato
di appartenenza alla comunità, così come
essa attualmente si configura, che esse rivestono.
Da questo punto di vista l’escissione costituisce un fattore
d’integrazione sociale e non
d’isolamento: per i singoli individui, cioè per i genitori,
è estremamente difficoltoso assumere il
peso di scelte contrarie a quelle imposte e indiscusse nella propria
comunità.
La funzione e l’obbligatorietà sociale acquisite dall’escissione
si comprendono meglio in questo
quadro, che rende veramente difficile criminalizzarle nei paesi africani.
Nei paesi occidentali,
tuttavia, tale quadro non è più lo stesso, sia perché
la società in cui gran parte di queste donne
presumibilmente vivrà non riconosce valore all’escissione,
sia perché la tradizione liberale dei
diritti individuale deve mantenere fermi alcuni principi, in particolare
quelli in difesa dei soggetti
deboli.
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