Libero Cerrito


scarica l'articolo in formato Pdf

Le relazioni dell’Italia col Medioriente negli ultimi cinquant’anni

Lo stato di conflittualità permanente che caratterizza da oltre quarant’anni la regione mediorientale fonda le sue radici nella questione della Terra di Palestina che, per volontà delle Nazioni Unite, nel 1948 venne data al popolo ebraico per l’istituzione dello Stato di Israele. Sebbene non scacciato da quell’area, ma invitato a convivere con la componente ebraica, il popolo palestinese da oltre quarant’anni rivendica il pieno controllo di quelle terre, trasformando l’intera questione in “causa sacra” per le popolazioni arabe della regione. E la componente religiosa gioca, da sempre, un ruolo, determinante in Medio Oriente: dalla nascita di Israele come Stato confessionale alla nascita del Libano, dove convivono almeno una dozzina di religioni che danno vita ad un delicato equilibrio politico-istituzionale interno. Dagli anni ’70, inoltre, in alcune aree del Medio Oriente, il mondo musulmano si è riproposto nella sua veste ideologica più radicale, sconvolgendo i rapporti sociali e politici interni, ma anche quelli di potenza a livello internazionale, creando uno scenario strategico frammentato, di difficile gestione e controllo. L’ostilità del mondo arabo verso Israele, perché diverso per tradizione e cultura religiosa, e perché imposto in terra di Palestina a livello sopranazionale, ha fatto sì che quell’area diventasse teatro di pesanti scontri armati e di azioni terroristiche, con infiltrazioni in territorio israeliano, e a livello mondiale, con i noti e tragici fatti che hanno imposto a Israele una strategia di allerta continua, interna ed internazionale.
La stessa definizione del conflitto mediorientale come conflitto arabo-israeliano può portare ad identificare lo scontro fra due identità religiose ben definite, precise e circoscritte: paesi arabi musulmani da una parte e nazione ebraica dall’altra. Tuttavia al di là di questa chiara e semplicistica riduzione del conflitto attraverso la componente religiosa, nel corso dei decenni, all’interno dello stesso mondo arabo, sono subentrati elementi di conflittualità di tutt’altra natura, che hanno portato a stategie di alleanze sempre differenti. Un ruolo fondamentale, a questo proposito, è stato giocato dalla nascita , nel 1964, della Organizzazione per la liberazione della Palestina, l’Olp, con le sue strategie e le sue alleanze e, prima ancora negli anni ’50, dalle scelte politiche imposte all’interno e all’estero da alcuni leader arabì. Così, dopo la seconda guerra mondiale, il nascente nazionalismo arabo, ha assunto con il ba’atismo in alcuni paesi (Siria, Libano e Iraq) e il nasserismo egiziano una connotazione rivoluzionaria. Alla “causa sacra” del mondo arabo hanno quindi contribuito non solo l’elemento religioso, ma anche quello legato a fattori come strategie di dominio e di controllo sul mondo arabo- il nasserismo, appunto-e, da ultimo, ma non certamente trascurabile, quello del confronto di potenza fra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Nella tradizione politica araba, dove è forte ed influente il legame tra politica estera ed interna, più che nella tradizione politica occidentale i mutamenti di equilibrio politico interno ai paesi arabi hanno finito per creare notevoli distorsioni e turbamenti internazionali: la creazione forzata da parte delle potenze occidentali, dopo la seconda guerra mondiale, di entità statali prima inesistenti e l’acuirsi della tensione per la questione palestinese hanno sconvolto i meccanismi di decision making in Medio Oriente e hanno influito pesantemente sull’aspirazione- comune a tutti i paesi dell’area- alla creazione di una grande nazione araba unita. Questo è avvenuto dopo il 1947 in Palestina e in Libano, passando appunto attraverso la creazione, fra gli altri, della Giordania , possibile soluzione, almeno per gli occidentali, del problema palestinese.
L’Italia ha sempre mantenuto una posizione di equidistanza trai paesi arabi da un lato e Israele (e gli USA) dall’altro, con due notevoli eccezioni costituite dai fatti di Sigonella del 1985 e dalla attuale guerra in Iraq.
Negli anni quaranta, l’avvenimento più importante sul piano simbolico e morale fu la nascita dello stato di Israele (quando David Ben Gurion, il 14 maggio del 1948, la proclamò). La vicenda ha inizio molto tempo prima, alla fine dell’Ottocento, quando un grande intellettuale austriaco di origine ungherese, Theodor Herzl, fondò un movimento che si definì sionista. Herzl, giornalista e commediografo brillante, si trovava a Parigi negli anni del caso Dreyfus, il capitano francese ebreo accusato di spionaggio, ed era rimasto profondamente indignato dalla cerimonia, quando al povero Dreyfus era stata spezzata la lancia in segno di disonore.
Da quel momento, Herzel concepì il disegno di uno stato ebraico, in cui gli ebrei, soprattutto quelli perseguitati dell’Europa centro-orientale, avrebbero potuto trovare una patria. Il tentativo di Herzel procedette all’inizio con grande lentezza. Furono relativamente pochi gli ebrei che decisero di trasferirsi in Palestina per crearvi colonie e diventare il nucleo iniziale di quello che sarebbe diventato, un giorno, lo Stato di Israele. Un progresso si verificò durante la prima guerra mondiale, poi l’Onu, nel secondo dopoguerra, creò una commissione d’inchiesta che propose la divisione della Palestina in due stati: uno arabo, l’altro ebraico. E propose al tempo stesso, che Gerusalemme divenisse zona internazionale. La Gran Bretagna avrebbe mantenuto il suo mandato per due anni e poi se ne sarebbe andata. Ma gli arabi non erano d’accordo con la creazione dello Stato d’Israele e l’Onu si trovò di fronte ad una situazione difficile: la prima guerra arabo-israeliana. Gli arabi si coalizzarono per distruggere sul nascere lo stato appena approvato dall’Assemblea delle Nazioni Unite. Gli israeliani non avevano un esercito ma avevano un’organizzazione militare che si chiamava Haganha. In conclusione gli israeliani, partiti svantaggiati, alla fine allargarono i confini che delimitavano il loro stato..
Nella nascita dello Stato d’Israele, l’Italia non ebbe una gran parte. Non faceva parte dell’Onu e aveva firmato da poco il Trattato di pace con gli alleati, era considerata un paese in libertà vigilata, sorvegliata dagli alleati stessi. Tuttavia, per certi aspetti, l’Italia fece la sua parte: fu terreno di transito per molti ebrei che, fra il 1945 e il 1947, spesso sfidando il blocco inglese, raggiunsero la Palestina. Erano ebrei dell’Europa centro-orientale, sopravvissuti ai campi di concentramento o che avevano passato la guerra in nascondigli segreti.
Relativamente alla questione della nazionalizzazione del canale di Suez , di proprietà franco-britannica, da parte di Nasser nel 1956, l’Italia fu leale agli Stati Uniti che condannarono la riconquista del canale stesso tramite una guerra franco-britannica-israeliana, giudicata come un’operazione imperialista e neocolonialista.
Nel 1973 le tensioni arabo-israeliane produssero una nuova guerra. L’ultima era stata combattuta nel 1967, era durata sei giorni e si era conclusa con la vittoria di Israele che aveva, tra l’altro, occupato l’intera Gerusalemme e ne aveva fatto la capitale dello stato. In Egitto, il presidente era Nasser, protagonista delle vicende del 1956, all’epoca della nazionalizzazione del canale di Suez e della spedizione anglo-francese. Morto Nasser, nel 1970, gli era successo Sadat, un altro militare egiziano che, con Nasser aveva fatto parte di quel gruppo di giovani ufficiali che dagli anni quaranta si era battuto per l’emancipazione dell’Egitto dalla tutela britannica. Sadat fu uno dei leader più interessanti e originali della regione. Dopo aver conquistato il potere modificò radicalmente i rapporti che Nasser aveva stabilito con l’URSS negli anni precedenti e congedò i circa 20 mila tecnici e soldati sovietici che il governo di Mosca aveva inviato in Egitto per addestrare le forze armate egiziane all’uso delle armi sovietiche Questo gesto fu immediatamente interpretato in Occidente come una prova di indipendenza, e lo rese molto più credibile agli occhi dell’opinione pubblica delle grandi democrazie di quanto non fosse stato il suo predecessore. Sadat voleva apparire agli occidentali come un partner affidabile, ma non intendeva per questo rinunciare al suo obiettivo fondamentale: riscattare la dignità nazionale, ferita dalla sconfitta del 1967, fare una guerra contro Israele che, vinta, dimostrasse al mondo che l’Egitto poteva aprire un credibile negoziato di pace. Così il 6 ottobre 1973 scoppiò la “guerra del Kippur”. Fu definita del kippur perché ebbe luogo nella giornata del Yom Kippur, una delle più importanti giornate religiose ebraiche, una giornata, allora, in cui l’esercito non era in allerta e molti militari erano in licenza, dispersi nel paese. La guerra fu alla fine vinta da Israele contro egiziani e siriani,che erano alleati, e le truppe israeliane arrivarono a 35 km da Damasco Le guerre arabo-israeliane, generalmente, durarono poco per una serie di ragioni. Anzitutto perché i combattenti consumavano molto materiale e gli stati arabi,in particolare, non erano in condizioni di rifornire il campo di battaglia con industrie attrezzate per guerre di lungo respiro. In secondo luogo le due parti combattevano con armi fornite rispettivamente dall’Unione Sovietica e dall’Occidente, in particolare dagli Stati Uniti., Se desideravano la pace e volevano imporre una tregua, l’URSS e l’America non dovevano che chiudere la fornitura delle armi. La tregua arrivò quando Unione Sovietica e Stati Uniti riuscirono a mettersi d’accordo e, grazie all’intermediazione dell’Onu, imposero alle parti di fermarsi. A quel punto Israele aveva vinto il conflitto e si era affermata come una grande potenza militare. Ma Sadat ,avendo l’Egitto conseguito grosse vittorie nella prima parte della guerra, poteva presentarsi all’opinione pubblica araba come l’uomo che aveva riscattatato l’orgoglio arabo o musulmano. Insomma, in un certo senso , una guerra da cui Israele e l’Egitto (ma non la Siria) uscirono ugualmente vincitori. Entrò però in gioco un altro fattore: il petrolio; i paesi petroliferi (riuniti sotto l’Opec, organizzazione dei paesi produttori di petrolio) entrarono nella guerra del 1973, assumendo una politica filo-araba, antiisraeliana e antioccidentale. Ciò che veramente desideravano era perseguire un obiettivo nazionale: l’uso del petrolio come leva economica per imporre all’Occidente quello che fu allora definito”un nuovo ordine economico mondiale” (la politica di parità tra paesi produttori e paesi importatori perseguita da Enrico Mattei).E così il prezzo del petrolio nel corso degli ultimi mesi del 1973 quadruplicò. Dal conflitto per il petrolio tutti i paesi occidentali furono profondamente influenzati. L’Italia, in particolare, che dipendeva più di altri paesi dalle importazioni di pertrolio e di gas, vide improvvisamente la bolletta del petrolio andare alle stelle e dovette fare i conti con un’inflazione galoppante che superò negli anni successivi il venti per cento. Cominciò per tutta l’Europa una fase economica di grande difficoltà che in Italia fu resa particolarmente grave dal terrorismo e dall’instabilità politica. Alcuni paesi uscirono dalla crisi petrolifera più rapidamente dotandosi di centrali nucleari. In Italia un programma per la loro costruzione si scontrò con l’ostilità di una parte del mondo politico e della società italiana. Dalla crisi petrolifera del 1973, l’Italia uscì soltanto nel corso degli anni ottanta.
La “guerra del petrolio del 1973 aveva provocato un forte aumento dei prezzi e garantito grande ricchezza ai paesi produttori. L’Unione Sovietica, il maggiore paese produttore del mondo, aveva moltiplicato i suoi introiti. Un altro paese che aveva tratto grande beneficio dall’aumento dei prezzi era l’Iran, una monarchia retta da Reza Pahlavi che si compiaceva di collegarsi idealmente alla grande tradizione persiana. Era comunque un grande modernizzatore, deciso a rinnovare l’Iran e a far leva, per raggiungere il suo scopo, sull’arma del petrolio. Quando nel 1973 Reza Pahlavi, in seguito all’aumento del prezzo del petrolio, diventò più ricco lanciò il paese ancora più decisamente sulla strada della grande modernizzazione. Il custode della tradizione era, nella società iraniana un clero, assolutamente intransigente, integralista e fondamentalista di tradizione sciita.
Reza Pahlavi e suo padre avevano trattato il clero con la stessa durezza con cui avevano trattato tutti i loro oppositori. Alla testa di questo clero vi era da tempo l’ayatollah Khomeini, che era in esilio a Parigi. Alla fine del 1978 lo scià andò in esilio e ritornò il grande oppositore, l’ayatollah Khomeyni, una figura ieratica che suscitava nelle folle iraniane uno straordinario entusiasmo. L’ayatollah divenne la suprema autorità del paese. Ma il regime di Khomeyni non era solido. Innanzitutto aveva una forte opposizione interna Una parte della società iraniana era occidentalizzata e poco incline a farsi governare dal clero sciita. Esisteva poi l’opposizione esterna non solo degli americani e degli europei ma anche dei paesi del mondo arabo islamico che avevano scelto la strada della modernizzazione laica e vedevano con preoccupazione la nascita in Iran di un regime così radicalmente religioso. Il paese che decise di cogliere questa occasione per affermare la propria egemonia sul Golfo Persico fu l’Iraq, stato laico e diretto per di più da un leader fortemente ambizioso, Saddam Hussein. Così scoppiò, nel 1980, il conflitto tra Iran e Iraq, che durerà otto anni e fece registrare alcuni fra gli episodi più sanguinosi e crudeli nella lunga sequenza di guerre mediorientali, dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi. Per i paesi occidentali gli effetti fu innanzitutto un altro shock petrolifero. Ancora una volta uno dei paesi maggiormente colpiti fu l’Italia. Negli anni precedenti le industrie italiane avevano fortemente collaborato all’espansione e allo sviluppo economico dell’Iran di Reza Pahalavi.Tutte queste opere furono sospese. L’Italia fu colpita inoltre perché era, per il fabbisogno di energia, particolarmente vulnerabile. Dovette subire così ancora una volta un aumento dei prezzi che si ripercosse sui conti delle produzioni industriali italiane, sui prezzi al dettaglio, sul tasso di inflazione. Ma nonostante tutto la politica italiana continuò, anche negli anni seguenti, ad avere un occhio di riguardo per il nuovo regime iraniano e non condivise mai completamente le posizioni di rifiuto degli USA e di altri paesi occidentali. Giulio Andreotti mantenne un canale aperto con l’Iran e fu per questo molto criticato in Europa, negli Stati Uniti e in Italia (ma alla lunga fu la scelta più saggia). Fu criticato, tra l’altro, perché la rivoluzione iraniana del 1979 ebbe l’effetto di diffondere, attraverso il Medio Oriente, una nuova forma di islamismo radicale. Altrettanto accadde poi in Algeria e, su scala minore, in Egitto. Il fondamentalismo islamico è sempre esistito e corrisponde per certi aspetti a fenomeni analoghi del cristianesimo e dell’ebraismo. Ma la nascita a Teheran di uno stato teocratico, guidato e governato da ecclesiastici, dette a questa forma di islamismo un particolare impulso. l’Iran aveva fatto scuola: l’islamismo intransigente cominciò a manifestarsi politicamente anche in altri paesi della regione e in particolare in Libano, dove la guerra civile fu alimentata dall’Iran e da gruppi locali che si ispiravano all’insegnamento dell’ayatollah Khomeini.
Una delle due eccezioni alla politica di equidistanza dell’Italia tra i paesi arabi e Israele (e gli USA) è costituita dai fatti di Sigonella del settembre 1985. Il 10 settembre un aereo egiziano che trasportava Abu Abbas, esponente dell’Olp, e i 4 dirottatori della nave da crociera italiana Achille Lauro fu intercettato dall’aviazione militare USA che ne impose l’atterraggio a Sigonella (Sicilia). Craxi rifiutò di consegnare agli USA i sequestratori palestinesi dell’Achille Lauro affermando che i reati erano stati commessi su suolo italiano e, quindi, competeva all’Italia perseguirli. I militari italiani di Sigonella si opposero, con le armi, alle truppe speciali statunitensi.
Nel caso della prima guerra del golfo, invece, l’Italia si è mossa nel contesto della volontà generale dei paesi membri dell’Onu. Alla fine degli anni ’80 il Kuwait e gli Emirati Arabi, aumentando unilateralmente le vendite oltre i limiti fissati dall’O.P.E.C. (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio), avevano provocato un ribasso del prezzo del greggio. L’Iraq, che era gravato da debiti ingenti, non era in grado di provvedere alla propria ricostruzione dopo il conflitto con l’Iran e neppure di smobilitare le truppe, destinate ad incrementare la disoccupazione a causa della recessione economica. Con pressioni diplomatiche e militari, Saddam Hussein aveva ottenuto un rialzo dei prezzi e un prestito di 10 miliardi di dollari dal Kuwait e dall’Arabia Saudita. Ma il Kuwait reclamava una revisione delle frontiere. L’Iraq faceva affidamento sulla neutralità americana in caso di conflitto, poiché da anni (come si visto in precedenza) esisteva un’alleanza Iraq-Stati Uniti in funzione antiiraniana. Gli Stati Uniti, però, non si schierarono a favore dell’Iraq. L’obiettivo della coalizione (cui faceva parte l’Italia) erano: evitare l’affermarsi di una potenza regionale svincolata dall’Occidente in un’area fondamentale per il fabbisogno energetico dell’Occidente; ristabilire gli equilibri che erano stati sconvolti prima della rivoluzione komeinista e poi dalla guerra Iraq-Iran.
Dopo neanche due anni di calma, la regione fu sconvolta da una nuova guerra, scatenata dall’occupazione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno il 2 agosto del 1990, questa è però di portata internazionale. L’Onu condannò l’Iraq e decretò il blocco economico, navale ed aereo, di questo paese per impedirgli di esportare il suo petrolio e di ricevere aiuti e rifornimento dall’estero. Subito dopo (29 novembre, risoluzione n.678) l’ONU impose a Saddam di ritirarsi dal Kuwait, autorizzando le forze internazionali a usare le armi per evacuarlo. Gli USA ammassarono in Arabia Saudita navi e aerei raccogliendo un esercito più potente di quello che aveva combattuto in Vietnam. A queste forze si unirono quelle dei vari stati europei (fra cui l’Italia) e arabi. Il 17 gennaio 1991, scaduto l’ultimatum dell’ONU, la coalizione internazionale attaccò l’Iraq impegnando la più gigantesca battaglia aerea e tecnologica della storia che vide impegnati anche i Tornado italiani. Per 38 lunghi giorni, senza soste, l’esercito e le principali città irachenefurono investite da una tempesta di fuoco, condecine di migliaia di vittime anche fra la popolazione civile. Saddam rispose attaccando a sua volta Israele con l’intenzione di coinvolgerlo nella guerra. Il 28 febbraio l’Iraq accettò le condizioni americane per il cessate il fuoco.
La guerra del Golfo ha provocato almeno trecentomila morti e un numero imprecisabile di feriti specie tra la popolazione civile irachena, e ingenti danni ecologici per l’incendio dei pozzi petroliferi.. Non vanno neppure dimenticate le migliaia di casi di soldati americani colpiti dalla “sindrome della guerra del golfo” e rimasti intossicati dalle armi batteriologice e chimiche con ogni probabilità sperimentate in quel conflitto dagli stessi statunitensi. La guerra provocò delle perdite umane estremamente sproporzionate nei due campi: 150 soldati uccisi contro 150.000 iracheni.
Il successo dell’operazione “Tempesta nel deserto” non risolse nessuno dei problemi dell’area: non diminuì la diffusione dell’integralismo islamico nel Medio Oriente, e nell’Africa Settentrionale, né si allentarono le tensioni suscitate dal mancato riconoscimento dei diritti del popolo palestinese.
Quanto all’Italia essa condivise le preoccupazioni generali dell’ONU ed aderì militarmente all’operazione “Desert Storm” che seppur guidata dagli USA era sotto la bandiera dell’ONU.
Nel 2003 George W.Bush aveva dichiarato che Saddam Hussein produceva armi di distruzione di massa, era responsabile dell’attacco dell’11 settembre, era un tiranno e doveva essere rimosso.
Gli interessi alla base della guerra erano certamente economici come le immense riserve di petrolio, seconde al mondo solo all’Arabia Saudita e le commesse della ricostruzione post guerra. Ma la forza portante di questa guerra, secondo Bob Herbert è stata la “Visione manicheiana del mondo e la considerazione messianica di sé stesso, proprie del presidente Gorge W.Bush, la grandiosa e pericolosa percezione dell’America da parte dei suoi consiglieri guerrafondai, e l’irresistibile attrazione per le enormi riserve petrolifere dell’Iraq”.) (International Herald Tribune, 21 marzo 2003). Questa invasione imperialistica degli USA in Iraq non ha valide ragioni. Il popolo dell’Iraq non ha mai chiesto agli USA di liberarlo, e la democrazia non può essere imposta con la forza delle armi. La linea di condotta adottata dalle superpotenze di invadere uno stato sovrano senza un accordo internazionale è immorale. Infine l’Iraq come ogni altra nazione islamica potrà cambiare solo attraverso una trasformazione interna come sta succedendo in Iran e in Bangladesh. Kamal Pasha ha impostato la via del cambiamento in Turchia, un processo che dovrebbe continuare. Una reale trasformazione socio-economica dovrebbe avvenire naturalmente nel retroterra della psicologia e cultura collettive, quando le parole ne sentono la necessità. E’ una trasformazione puramente interna.
IL ruolo avuto dall’Italia nella seconda guerra del golfo e, soprattutto, nel dopoguerra è stato fondamentale. L’Italia, pur non partecipando direttamente alle operazioni militari della guerra, ha dato il suo appoggio logistico e a guerra conclusa, ha governato la Provincia di Nassiriya dove ha dispiegato circa 3000 militari .Sono avvenuti fatti tragici come il massacro di un contingente di carabinieri nel 2004 e l’uccisione dell’agente dei servizi segreti Callipari più una serie di rapimenti e di sequestri.
Ma qual è la vera motivazione per cui l’Italia ha partecipato alla fase post guerra (che poi dsta sfociando in una guerra civile)? E’ il controllo delle immense riserve petrolifere detenute dall’Iraq che servono enormemente ad un paese come l’Italia pressoché privo di risorse energetiche non rinnovabili.
La guerra in Iraq non ha certamente diminuito la pericolosità del terrorismo islamico ed ha segnato l’altro estremo della politica estera italiana nei rapporti con il mondo arabo-islamico a favore degli Usa e di Israele.