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L'ultima Turchia
La Turchia, un paese per il 99% musulmano, si è candidata ufficialmente come membro dell’Unione europea nel 2015; esame le condizioni interne ed esterne che hanno permesso tale obiettivo sono molteplici. Il 12 settembre prese il potere 1980 una giunta militare, il Consiglio nazionale di sicurezza, che riuniva il capo di stato maggiore interarmi Kenan Evren e i capi di stato maggiore di ogni arma e delle forze di sicurezza proclamando lo stato d’assedio in tutto il paese, arrestò la maggior parte degli uomini politici , sciolse l’assemblea nazionale e vietò l’attività della maggior parte dei sindacati e delle associazioni. La giunta si allargò ad un ammiraglio in pensione, Bulent Ulusu, nuovo primo ministro, ed esercitò al tempo stesso il potere legislativo ed esecutivo ( e, indirettamente, attraverso i tribunali militari, anche quello giudiziario). La nuova giunta dimostrò la volontà di assicurare la stabilità politica, mettere fine alla violenza civile e imporre la “disciplina” necessaria per riformare l’economia. Il 6 novembre 1983 il risultato delle elezioni vide la vittoria dell’Anap con il 45,15% dei voti (la maggioranza assoluta dell’assemblea), seguito dal Partito Populista (il 30,27%) e, a grande distanza, dal partito dei militari (il 23,27%). Il potere dell’Anap si presentava con una fusione delle quattro tendenze che avevano caratterizzato la Turchia nel periodo precedente il colpo di stato (destra,sinistra, integralismo islamico e destra radicale).Populista e demagogico, questo partito si considerava il difensore del “pilastro centrale”,metafora utilizzata per designare le classi medie. Molto conservatore mirava anche a sfruttare l’eredità del regime militare, che aveva privato molti uomini politici dei diritti civili. Il suo leder era Ozal il quale, anche se curdo di nascita, si considerava il difensore del nazionalismo turco e di uno stato forte, capace di incarnare l’ordine e la disciplina. Era il signore assoluto di una rete clientelare di tecnocrati e di economisti che non avevano il profilo tradizionale dei burocrati turchi. Incarnava inoltre l’immagine di una società al tempo stesso profondamente religiosa e occidentalizzata, e lui stesso aveva studiato negli Stati Uniti ed era discepolo della confraternita naqshbandiyya. Le elezioni del 1991 avrebbero potuto dar vita ad una Turchia stabile, capace di risolvere la questione curda, di integrazione delle sue diverse sensibilità politiche e di svolgere un ruolo stabilizzatore al di là delle frontiere. Al contrario, gli anni Novanta sono stati caratterizzati da un susseguirsi di crisi. In poco tempo la coalizione di Demirel (nuovo premier) perse qualunque autonomia nei confronti dei militari, in particolare nella gestione della questione curda,.alla fine del 1991 Demirel aveva dichiarato che il suo governo riconosceva la “realtà curda”.Ma qualche mese dopo, la festività del “Nuovo anno curdo “ fu duramente repressa dall’esercito e vi furono cento morti tra i civili. Nel settembre del 1993 Demirel lasciò la direzione del governo alla sua protetta Tansu Ciller, professoressa universitaria, donna politica “importata “ dagli Stati Uniti e senza grande esperienza politica, che doveva dare l’immagine di una Turchia aperta e occidentalizzata. Ma ben presto la Ciller si rivelò una convinta sostenitrice del nazionalismo più sfrenato. La Ciller, legata ai militari, si presentava come l’unico bastione contro l’Islam politico. Durante i suoi viaggi in Europa precisava spesso che, in mancanza di quell’alternativa laica che lei rappresentava, la Turchia sarebbe diventata inevitabilmente un nuovo Afghanistan. Le elezioni del 24 dicembre 1995 videro l’affermazione del partito islamico e la Ciller entrò in coalizione come vice premier ( situazione che generò forti reazioni dei militari) ed infine le elezioni del 1998 furono vinte da Bulent Ecevit. In questo quadro di instabilità politica si collocano la questione curda, il ruolo dell’islam politico e la questione alevita.La divisione della società trovò la sua espressione più evidente nella guerriglia del Pkk. Questa organizzazione, il cui coinvolgimento nella violenza fratricida negli anni 1977-1980 aveva traumatizzato i curdi, è stato uno dei principali obiettivi del regime militare del 12 settembre. I suoi quadri sono stati decimati dall’esercito e altri militanti si sono dati fuoco per protestare contro le umiliazioni che subivano nelle prigioni militari. In questa situazione il suo capo, Abdullah Ocalan, decise di riorganizzare il PKK in Siria e in Libano, dove si era rifugiato; il 15 agosto 1984 stabilì che era il momento di riprendere la guerriglia contro la Turchia. L’iniziativa fu accolta con entusiasmo da parte della gioventù curda, che la considerava una sorta di revanche etnica nei confronti del regime militare. Nonostante le azioni spesso criticabili come l’uccisione di civili nel 1987, i meccanismi di coercizione interna responsabili di decine di condanne a morte, un culto della personalità degno del capo di Sendero luminoso, e l’assenza di qualunque strategia a breve e medio termine, il PKK ha continuato a svilupparsi nel corso degli anni. In risposta alla guerriglia, che fece decine di migliaia di morti, fu decretato lo stato di emergenza in tutte le città curde e fu creato un “governatorato” dotato di ampi poteri civili e militari su tutto il Kurdistan. Inoltre venne formata una forza paramilitare di protettori di villaggio composta da circa 100.000 persone armate, appartenenti alla cosiddette tribù “fedeli” e stipendiate dallo stato. All’inizio degli anni Novanta l’esercito adottò ufficialmente una strategia di “guerra di bassa intensità”. La dottrina dell’esercito, approvata dal governo, consisteva nel considerare la questione curda non come una questione politica o “culturale”, ma come una fonte di terrorismo separatista” quindi come la “principale minaccia strategica” contro la Turchia. Nel 1993 il presidente Turgut Ozal aveva deciso di arrivare ad una soluzione negoziata con il PKK scavalcando il governo e l’esercito. Secondo informazioni ufficiose, il progetto era basato sul decentramento della Turchia secondo il modello di alcuni stati federali, dove il potere locale sarebbe stato affidato a rappresentanti curdi, e su un’amnistia di cinque anni che sarebbe diventata definitiva solo se il PKK avesse rinunciato definitivamente alla violenza. Ma la morte di Ozal durante il cessate il fuoco e l’uccisione da parte di un comandante dissidente del PKK di oltre 30 soldati turchi poche settimane dopo segnavano la fine definitiva dei qualunque progetto negoziato per mettere fine a una guerra a oltranza. La guerra dell’esercito turco contro i curdi fu durissima e costò più di 100 miliardi di dollari e ha mobilitato nei momenti più duri degli scontri quasi 300.000 soldati, cioè un terzo dell’esercito. La rapida affermazione dell’Islam politico e la popolarità del Refha rappresentavano una seconda fonte di tensioni e di divisioni sociali. Il successo di questa formazione, che non è mai stata radicale, era dovuto a diversi fattori: la popolarità dell’Islam politico in Medio Oriente, la perdita di credibilità dei partiti tradizionali, e la sua capacità di concludere alleanze programmatiche.Tuttavia la sua politica moderata nei confronti di Israele le alienò l’appoggio del regime ed anzi fu vietato nel gennaio 1998. Il nuovo partito islamico Fazilet è stato messo al bando il 22 giugno 2001. Gli aleviti si erano sentiti particolarmente danneggiati dall’affermazione del Refah, ma non erano riusciti a trovare un’alternativa nelle formazioni kemaliste o nell’esercito. Questa comunità confessionale, che rappresenta circa il 20% della popolazione e la cui cosmogonia sostituisce il Dio unico sannita con la trinità Allah-Maometto-Alì (genero del Profeta), era stata spesso perseguitata sotto la Repubblica. Durante gli anni novanta gli aleviti, che precedentemente avevano sostenuto partiti di sinistra, scelsero per lo più modi di lotta pacifici, limitando le loro rivendicazioni alla sfera culturale e religiosa. Bulent Ecevit ha formato il suo governo di minoranza (2 dicembre 1998) in una Turchia sottomessa, che non rimetteva più in discussione l’ordine costituito, il predominio dei militari e la disciplina sociale richiesta in nome degli interessi superiori della nazione, ma anche completamente disorientata, che non sapeva più quale dei due nemici il terrorismo separatista” o l’”islamismo reazionario”, costituisse la minaccia più grave. Rapidamente però il primo di questi due pericoli ha perso credibilità. Su decisione apparentemente personale del Presidente Bill Clinton, gli Stati Uniti hanno informato la Turchia della presenza di Abdullah Ocalan presso l’ambasciata greca in Kenya. Grazie alle pressioni americane su Atene e Nairobi la Turchia è riuscita a rapire il capo del PKK. Questo arresto ha costituito un colpo molto duro per l’organizzazione. Le elezioni che hanno avuto luogo qualche mese dopo (19 aprile 1999) hanno emarginato anche il partito islamico, cancellando di fatto la dinamica della “seconda minaccia strategica”. Sul piano internazionale, dopo lo scandalo di Nairobi che aveva svelato i suoi rapporti col PKK, la Grecia si è sforzata di adottare una politica conciliante con Ankara e il nuovo governo tedesco di Gerhard Schroeder si è detto favorevole alla concessione alla Turchia dello statuto di candidato all’adesione all’Unione europea. Il vertice dell’Unione europea di Elsinki (dicembre 1999) ha ufficializzato questo evento. Le elezioni del 3 novembre 2002 hanno segnato la fine della vecchia classe politica turca. Solo due partiti sono entrati in Parlamento, semplificando in modo considerevole la situazione politica: l’Akp di Recep Tayiip Erdogan (il Partito della giustizia e dello sviluppo, frutto di una scissione del vecchio partito islamico) con il 34,26%, e il Chp (di Deniz Baykal). Il successo dell’Akp, partito al tempo stesso “moderato” e “contro il sistema”, è stato prima di tutto il segno evidente del fallimento di un sistema politico diviso e incentrato su personalità ormai logore. Il Partito della giustizia e dello sviluppo non assomigliava ad alcuna formazione islamica tradizionale del Medio Oriente. Esso faceva, infatti, riferimento a Konrad Adenauer e ai cristiano-democratici tedeschi. Come questi “infedeli”, diventati garanti della democrazia e del laicismo tedesco, anche l’Akp, che non negava l’importanza del riferimento musulmano nel suo programma, si considerava garante della democrazia e del laicismo in Turchia, e, contrapponendosi all’estabilishment anti-europeo, puntava dichiaratamente sull’Europa. Non si può dubitare della sincerità di Erdogan quando afferma di voler mettere fine alle violazioni di massa dei diritti umani. Allo stesso modo sembra chiara l’intenzione del governo di rompere il dominio dei militari sulla vita politica, di creare dei meccanismi di integrazione per risolvere le questioni scottanti e di realizzare l’entrata della Turchia nell’Unione europea. Dopo il 2003 il processo di integrazione della Tirchia all’Unione europea che sembrava ancora incerto è effettivamente cominciato. Il 3 dicembre 2004 i capi di stato e di governo europei hanno dato il via libera all’avvio dei negoziati, che sono iniziati ufficialmente il 17 ottobre 2005. Ma la prospettiva di adesione, ipoteticamente fissata per il 2015, è tutt’altro che certa. La Turchia infatti, dovrà accettare ufficialmente la richiesta europea di riconoscere il governo di Nicosia come unico rappresentante di Cipro e rispettare i criteri politici di Copenaghen relativi ai diritti dell’uomo e delle minoranze (in particolare dei curdi). Allo stesso modo il paese, anche se nessuna richiesta ufficiale è stata avanzata in questo senso, dovrebbe riconoscere il genocidio armeno e in futuro rinunciare a qualunque ideologia ufficiale, come è attualmente sancito nella sua costituzione. I negoziati inoltre potrebbero essere interrotti se dovessero essere accertate violazioni persistenti dei diritti dell’uomo.
Libero Cerrito
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